Il suo nome era Vera, ma i vicini la chiamavano affettuosamente Veronica, una donna la cui abbagliante bellezza mascherava un’oscurità agghiacciante. Viziata fin dall’infanzia, l’insaziabile desiderio di Vera di ottenere ciò che desiderava la condusse su un sentiero di tradimento, crudeltà e orrore inimmaginabile. Dal furto dell’amante della sua migliore amica alla complicità della macchina di morte nazista nel campo di concentramento di Ravensbrück, la storia di Vera è un racconto straziante di ambizione distorta dalle circostanze e dall’ideologia. Quando il campo fu liberato nel 1945, fu responsabile della morte di oltre 500 donne ebree, guadagnandosi il titolo di “macellaia”. Il suo processo e la sua esecuzione nel 1946 portarono giustizia, ma la sua eredità rimane un severo monito di quanto in basso si possa sprofondare. Scopriamo le origini di Vera, i suoi crimini e la resa dei conti che ne seguì: una storia che vi coinvolgerà e accenderà il dibattito sulla moralità e sulla natura umana.
Un inizio privilegiato: l’ambizione precoce di Vera

La bellezza di Vera era innegabile e attirava l’attenzione ovunque andasse. Ma l’indulgenza dei suoi genitori alimentava un tratto pericoloso: un bisogno incrollabile di possedere tutto ciò che desiderava. Da studentessa universitaria in Germania, il fascino e l’astuzia di Vera erano già evidenti. Aveva corteggiato il fidanzato della sua migliore amica, un affascinante ricercatore all’Università di Karlsruhe. Innamoratasi a prima vista, Vera gli inviò una sfacciata lettera d’amore il giorno dopo, ignorando i sentimenti dell’amica. La sua instancabile ricerca ebbe successo, ma presto lo scartò per un corteggiatore più ricco e attento: un avvocato laureato all’Università di Jena che divenne suo marito. Questo tradimento preparò il terreno per l’erosione morale di Vera, che diede priorità al tornaconto personale rispetto alla lealtà.
All’inizio degli anni ’30, Vera era sposata e lavorava in un ospedale; la sua intelligenza e ambizione la preparavano per una promettente carriera come medico. Ma l’eredità ebraica del marito, inizialmente non un problema, divenne un ostacolo quando il regime di Hitler intensificò le sue politiche antisemite dopo il 1933. I sogni di Vera di diventare un medico di spicco andarono in frantumi quando il direttore dell’ospedale la informò che sposare un ebreo le avrebbe impedito di ottenere una promozione, citando le norme naziste. Questo colpo non provocò risentimento verso il regime; anzi, Vera riversò la sua furia sul marito, incolpandolo di aver ostacolato la sua carriera. Il suo freddo distacco – il rifiuto di cucinare per lui, di parlargli o di vivere con lui – culminò con il suo ritorno a casa dei genitori, un agghiacciante preludio alle sue decisioni successive.
Discesa nell’oscurità: il ruolo di Vera nel programma T-4

Con l’escalation dell’antisemitismo nella Germania nazista, la vita di Vera si sgretolò ulteriormente. Il programma Action T-4 del regime, lanciato nel 1939 per “eutanasia” di coloro che erano considerati “indegni di vivere”, segnò una svolta. Lavorando in un ospedale, Vera ottenne informazioni riservate su questa orribile iniziativa. Un giorno, mentre era incaricata di accompagnare una giovane donna con lievi problemi neurologici per una “diagnosi”, Vera vide un medico mandare la paziente in una “doccia” (un eufemismo per camera a gas) con il pretesto di eliminare le “minacce” alla Germania. Questa esposizione a omicidi sistematici non inorridì Vera; la desensibilizzò, allineandola al suo crescente interesse personale.
Nel 1943, con l’intensificarsi della persecuzione nazista contro gli ebrei, il marito di Vera affrontò la deportazione in un campo di concentramento. Mentre più di 4.000 donne tedesche protestavano sulla Rosenstrasse di Berlino per salvare i loro mariti ebrei, Vera scelse la via della salvezza. Chiese il divorzio, abbandonò il marito al suo destino in un campo e diede priorità alla carriera rispetto all’amore. Tuttavia, le sue azioni non riuscirono a proteggerla completamente. Accusata di aiutare segretamente gli ebrei, Vera fu privata dei suoi incarichi in ospedale e inviata al campo di concentramento di Ravensbrück per la “rieducazione”. Come prigioniera tedesca, godeva di condizioni migliori rispetto ad altre, ma la sua ambizione la condusse verso abissi più oscuri.
Il macellaio di Ravensbrück: le atrocità di Vera

A Ravensbrück, un famigerato campo femminile, la morale di Vera andò in frantumi. Inizialmente, le fu offerta la possibilità di lavorare nel bordello del campo per evitare i lavori manuali, ma una guardia la schiaffeggiò e la definì “svergognata”. Imperterrita, Vera si voltò e si offrì volontaria come informatrice per i supervisori del campo. Spiava le sue compagne di prigionia e denunciava infrazioni che portavano a brutali percosse o torture nelle stanze degli interrogatori. La sua “efficienza” attirò l’attenzione del comandante del campo, Dorothea Binz, che la promosse a infermiera, una posizione che si trasformò in una condanna a morte per innumerevoli vittime.
Sotto la direzione della capoinfermiera Elisabeth Marschall, il primo compito di Vera fu quello di iniettare farmaci sperimentali a tre donne ebree. Nel giro di pochi minuti, crollarono a terra, sanguinando da occhi, naso e bocca, e ansimando per l’ultima volta. La reazione di Vera fu agghiacciante: diede un calcio a uno dei cadaveri e disse con un sogghigno: “Avresti dovuto morire molto tempo fa”. Impressionata, Marschall le disse: “Stai iniziando a capire l’illuminismo razziale”. Insegnò a Vera a somministrare farmaci di base per disturbi minori, ma a usare un farmaco “speciale” (veleno letale) per i casi gravi. Promettendole gli stessi privilegi delle SS, Marschall alimentò l’ambizione di Vera, trasformandola in una boia consenziente.
La crudeltà di Vera raggiunse l’apice nel 1944. Vedendo un gruppo di donne ebree anziane, disabili o incinte in una tenda temporanea vicino alla stazione medica, vide un’opportunità. Proponendo a Marschall di sposarlo, Vera orchestrò un avvelenamento di massa con il pretesto di una campagna di “prevenzione del colera”. Divise le donne in gruppi di 10 e le costrinse a bere intrugli letali presso la stazione medica. A mezzogiorno, 230 cadaveri erano stati portati al crematorio. Questo massacro valse a Vera una promozione a capo della diagnostica, conferendole un potere illimitato. Per due anni, uccise personalmente o supervisionò la morte di oltre 500 donne ebree, e la sua fredda efficienza le valse il soprannome di “macellaia di Ravensbrück” tra i prigionieri.
Finalmente giustizia: rilascio e processo
La liberazione di Ravensbrück da parte dell’Armata Rossa sovietica nell’aprile del 1945 pose fine al regno del terrore di Vera. Incapace di fuggire, affrontò l’ira dei prigionieri sopravvissuti, che la picchiarono fino a farla sanguinare finché non intervennero le truppe sovietiche. Nel 1946, dopo un processo meticoloso con testimonianze e prove dei sopravvissuti, Vera fu dichiarata colpevole di crimini di guerra e condannata a morte. Il verdetto suscitò festeggiamenti tra i sopravvissuti, che videro la giustizia ripristinata. Un sopravvissuto, citato negli atti del processo, disse: “La morte di Vera restituisce la dignità a coloro a cui è stata rubata”. La sua esecuzione segnò la fine di un capitolo mostruoso, ma la sua storia lasciò cicatrici, a testimonianza della profondità della crudeltà umana.
