
L’aria che si respirava questa mattina a Palazzo Madama non era quella di una giornata qualunque. C’era un’elettricità, una tensione che si tagliava con il coltello, ben prima che la discussione sul decreto bilancio entrasse nel vivo. Ma nessuno, nemmeno i cronisti parlamentari più navigati, avrebbe potuto prevedere l’onda d’urto che di lì a poco avrebbe fatto tremare le fondamenta stesse di quell’emiciclo. L’epicentro di questo terremoto politico ha due nomi: Giulia Bongiorno e Giuseppe Conte.
Non un dibattito, ma un duello. Non uno scontro politico, ma una vera e propria requisitoria da aula di tribunale, con l’avvocata e senatrice Bongiorno nei panni del pubblico ministero e l’ex Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sul banco degli imputati. Oggetto del contendere: la verità, o almeno la versione dei fatti, sul caso Gregoretti e sul presunto sequestro di persona che per mesi ha tenuto sotto scacco Matteo Salvini.
Con un passo fermo e la calma glaciale di chi sa di avere in mano una bomba, Giulia Bongiorno ha raggiunto il microfono. Stringeva tra le mani un fascicolo color vinaccia, un dossier che presto si sarebbe rivelato un vaso di Pandora. L’aula, già ronzante, è piombata in un silenzio quasi sacrale.
“Non vi chiedo di fidarvi delle opinioni, ma dei fatti”, ha esordito la Bongiorno, sollevando il primo documento. Il timbro era inconfondibile: Presidenza del Consiglio dei Ministri. È iniziato così un affondo micidiale, una ricostruzione minuto per minuto che mirava a un solo obiettivo: dimostrare che la decisione di bloccare lo sbarco dei 131 migranti non fu un “capriccio di Salvini”, ma una “strategia condivisa dall’intero esecutivo” di allora, il governo gialloverde.
Parola dopo parola, l’avvocata-senatrice ha dispiegato il suo arsenale. Ha parlato di un cablogramma classificato, inviato da Palazzo Chigi a Parigi, Berlino e Madrid, in cui si sollecitava la conferma delle quote di accoglienza prima di autorizzare l’attracco. “Ecco la prova”, ha dichiarato, “che lo stallo non fu un atto solitario del Viminale, ma il passaggio cruciale di una strategia concordata”.
Ma il colpo più duro doveva ancora arrivare. La Bongiorno ha estratto la minuta di una riunione notturna, tenutasi nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Un verbale in cui, secondo la senatrice, Giuseppe Conte in persona garantiva “piena copertura politica” al Ministero dell’Interno sulla linea della fermezza. L’emiciclo tratteneva il fiato. Le telecamere stringevano sui volti dei senatori, molti dei quali improvvisamente pallidi, intenti a scarabocchiare note sui loro taccuini.
Poi, la stoccata che ha trafitto l’aula, una domanda retorica affilata come una lama: “Mi chiedo, e chiedo a quest’aula, se in questo paese la responsabilità penale sia forse modulabile in base all’altezza della poltrona?”. Un boato. L’accusa non era più velata: Conte avrebbe scaricato il suo ministro, Matteo Salvini, lasciando che la giustizia facesse il suo corso su di lui, pur sapendo di essere coinvolto nella stessa catena decisionale. L’intervento si è chiuso con una frase destinata a diventare un manifesto: “Quando la giustizia diventa selettiva, il diritto muore”. Dalle file del centrodestra è partita un’ovazione, un applauso a scena aperta, mentre molti sguardi si sono rivolti, impietosi, verso i banchi del Movimento 5 Stelle.
Giuseppe Conte, seduto poche file più indietro, ha stretto la sua cartella di cuoio. Per tutta la durata dell’intervento della Bongiorno, ha sfogliato lentamente le note che aveva preparato per la replica. Note che, a quel punto, sembravano appartenere a una discussione completamente diversa.

Quando ha preso la parola, la sua voce, normalmente pacata e professorale, tradiva una tensione palpabile. Ha negato tutto, in blocco. Ha parlato di una “reinterpretazione fantasiosa” dei fatti. Ha insistito sul fatto che la decisione sullo sbarco fu “squisitamente ministeriale”, un atto di competenza esclusiva del Viminale. Ha accusato la Bongiorno di voler trasformare un dibattito politico in un processo sommario. Per difendersi, ha persino sventolato un foglio, affermando che fosse la sua comunicazione scritta a Salvini in cui chiedeva una “soluzione umanitaria rapida” per i migranti.
Ma la Bongiorno non aveva finito. Ha chiesto di nuovo la parola, e ha calato l’asso. Un ultimo fascicolo, più snello. “Questa”, ha detto con voce ferma, “è la chiave di volta”. Era un brogliaccio di conversazione telefonica, un monitoraggio tecnico redatto dalla sala situazioni del Viminale. La “scatola nera” del Ministero. In quella trascrizione, una voce maschile, attribuita dagli operatori allo stesso Conte, autorizzava il ritardo dello sbarco fino a conferma scritta di almeno tre paesi membri.
“Presidente Conte”, ha incalzato la Bongiorno, “questa non è un’illazione di parte. È un monitoraggio tecnico che archivia in automatico, come le scatole nere degli aerei. Contestare anche questo significherebbe smentire gli apparati dello Stato”. Conte ha tentato un’ultima, disperata difesa, accusando la senatrice di “confondere registrazioni di servizio con orientamenti politici non vincolanti”.
Ma la Bongiorno lo ha fulminato: “Eppure, presidente, in calce a questa trascrizione automatica c’è la sua conferma a voce. Possiamo fingere che la tecnologia non esista?”.
In quel momento, l’aula è letteralmente impazzita. Il Presidente di turno ha richiamato all’ordine inutilmente. Le voci si sono sovrapposte. Dai banchi di Fratelli d’Italia è partito un coro di dissenso verso Conte. In un gesto plateale, una decina di senatori del centrosinistra ha abbandonato l’aula, un atto interpretato da alcuni come protesta contro la gestione della seduta, da altri come una strategica presa di distanza dal fuoco di fila che stava consumando l’ex premier.

Fuori, la notizia era già esplosa. Le agenzie battevano edizioni straordinarie, gli hashtag #buongiornovsconte e #Gregoretti schizzavano in cima alle tendenze. I talk show serali hanno riscritto le loro scalette in tempo reale.
La seduta si è chiusa in un clima surreale. Le luci di Palazzo Madama si sono spente, ma l’eco di questo scontro rimbomba ancora nei corridoi del potere. La domanda che dominerà le prime pagine di domani è una sola: se la catena di comando era davvero condivisa, come sostiene la Bongiorno, perché la lama della giustizia si è abbattuta solo su un anello?
Giuseppe Conte esce da quest’aula politicamente demolito, con la sua immagine di “avvocato del popolo” gravemente incrinata. Giulia Bongiorno ha segnato una vittoria schiacciante, non solo politica ma anche processuale, in un’aula che per un giorno ha vestito i panni di un tribunale. La politica italiana vive l’ennesimo terremoto, e la verità, ancora una volta, sembra essere la vittima più illustre.